Lo spettacolo erano i volti. I volti di
forestieri venuti a Lu, che hanno riempito la chiesa di San Giacomo
per ascoltare i virtuosismi di un ventitreenne imberbe destinato a
una carriera stellare: Scipione Sangiovanni (annotate questo nome!).
Uno che non si limitava a “pigiare tasti” su un piano. Ma ti
toccava direttamente le corde del cuore, ti carezzava con i movimenti
lenti di Bach, Busoni, Beethoven e List, ti pizzicava come i
movimenti veloci per poi schiaffeggiarti con i movimenti drammatici.
Io non ne capisco molto di musica classica, ma quando uno ascolta un
Beethoven (Sonata in Do maggiore op. 2 n. 3) interpretato in quel
modo, non c'è nulla da capire, basta ascoltare. E quel talentuoso
ventitreenne mi ha rivoltato come un calzino: non è questione solo
di musica, di orecchie, di suono... quando sei lì, e vedi uno così
che suona in quel modo, ti ritrovi a tua insaputa a far parte della
scena: eri lì per ascoltare qualcuno suonare, e ti ritrovi ad essere
tu stesso ad essere suonato dalle note di persone morte che risultano
più vive di molti vivi. Ti ritrovi a condividere con altri
sconosciuti sentimenti e stupori. E nel momento in cui quello là,
quel ventreenne, “pigia sui tasti”, quella musica ti entra
dentro, assieme al suo volto, alle sue accelerazioni, alle sue
frenate, ai suoi virtuosismi e alla naturalezza e apparente
semplicità con cui uno fa cose sorprendenti... e tutto questo ti
casca dentro, ti modifica persino il battito del cuore, come fossi
sulle montagne russe. Che questo accada a Lu, in una Chiesa che
doveva diventare un parcheggio, in un sabato sera qualunque, è una
della strane e stupende storie che accadono in questo paese.
(scritto dopo la partecipazione a un concerto della rassegna Echos 2013
e pubblicato su "Al pais d'Lu" di maggio 2013)
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